Gaza: le radici bibliche di un conflitto moderno
Per comprendere la profondità del conflitto a Gaza è necessario trascendere la contingenza politica e rivolgersi alla sua storia millenaria. La terra stessa, già epicentro dello scontro biblico tra Filistei e Israeliti, possiede una risonanza atavica che informa il presente.

La tesi fondamentale, per me, è che la radice ultima dello scontro sia intrinsecamente religiosa, fondata su due pilastri: un’esclusività teologica e un mandato territoriale divino. Il primo pilastro è la refrattarietà al sincretismo sia dell’Ebraismo sia dell’Islam, che nega la possibilità di una genuina convivenza paritaria con altri credi. Questa non è una semplice divergenza culturale, ma un’incompatibilità strutturale che impedisce l’integrazione. Il secondo, e forse più potente pilastro, è il concetto di “Terra Promessa”.
Donata da YHWH (telegramma di YAHWEH è il nome di DIO) al popolo ebraico, questa promessa trasforma il conflitto da una mera disputa geopolitica a un imperativo sacro. La terra non è un semplice territorio da negoziare, ma un’eredità divina da reclamare e difendere, rendendo ogni compromesso un potenziale sacrilegio.

Canaan: una terra segnata dalla maledizione
Prima dell’arrivo degli Israeliti, la terra di Canaan era un mosaico di popoli semitici, noti come Cananei. La legittimità della loro futura sottomissione viene fondata teologicamente nel Libro della Genesi, in un racconto che precede Abramo. I Cananei sono presentati come i discendenti di Canaan, nipote di Noè. La loro sorte è segnata da una maledizione primordiale, scaturita da un atto di profondo irrispetto filiale: Noè, ubriacatosi, quindi possiamo dire il primo uomo che si è ubriacato al mondo, giace nudo e vulnerabile nella sua tenda. Suo figlio Cam, vedendolo, invece di proteggerne l’onore, ne espone la debolezza ai fratelli, Sem e Iafet. Al suo risveglio, Noè punisce la stirpe di Cam maledicendo suo figlio Canaan: «Maledetto sia Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli!» (Genesi 9:25). Questa maledizione serve a delegittimare, dal punto di vista biblico, i popoli che abitano la terra prima dell’arrivo di Israele.

L’Alleanza Abramitica e la nascita di Israele
Se la maledizione fornisce la giustificazione per la sottomissione degli autoctoni, è con la figura di Abramo che nasce il mandato divino per la conquista. Originario di Ur in Mesopotamia, Abramo rompe con l’idolatria del suo tempo per adorare un unico Dio. Per questa sua fede, viene scelto per stipulare un’alleanza eterna, inaugurata dal comando radicale: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò» (Genesi 12:1). Giunto a Canaan, la promessa divina si ancora alla geografia. A Sichem, Dio dichiara: «Alla tua discendenza io darò questa terra» (Genesi 12:7). Questo patto, ereditato da suo figlio Isacco e dal nipote Giacobbe, trasforma la terra da spazio fisico a eredità sacra. È proprio con Giacobbe che l’identità del popolo eletto subisce una trasformazione decisiva. In una misteriosa lotta notturna presso il torrente Iabbok, egli si scontra con un essere enigmatico fino all’alba. Da questo combattimento esce ferito ma benedetto, con un nuovo nome che definirà il destino della sua nazione: «Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto». (Genesi 32:29). Questo evento è la nascita teologica di un popolo: Israele diventa la nazione che non ha una fede passiva, ma un rapporto diretto, tenace e persino conflittuale con il divino. La linea genealogica della promessa si separa qui, teologicamente e narrativamente, da quella di Ismaele, primo figlio di Abramo, considerato dall’Islam il capostipite del popolo arabo e l’antenato di Muhammad. Israele è il popolo di Dio perché Dio lo ha scelto per essere il Suo strumento e il Suo testimone sulla Terra, fino al compimento del Suo Regno.
L’esilio e la liberazione: il Ciclo Egiziano
Il percorso verso la Terra Promessa è segnato da un esilio provvidenziale in Egitto, iniziato con Giuseppe per salvare la sua famiglia dalla carestia (Genesi 50:20). Secoli dopo, la prosperità si trasforma in schiavitù sotto un nuovo Faraone (Esodo 1:8), spingendo Dio a chiamare Mosè per una miracolosa liberazione. L’Esodo è l’atto di nascita della nazione, che riceve la sua identità e la sua Legge (la Torah) sul Monte Sinai. Tuttavia, la conquista viene ritardata di quarant’anni a causa dell’incredulità del popolo ai confini di Canaan (Numeri 14:22-23). Questo periodo nel deserto serve a forgiare una nuova generazione, pronta a ereditare la promessa.
Gli stermini fondativi e la conquista
Prima che il popolo entri a Canaan, verso la fine dei quarant’anni nel deserto, avviene quello che può essere definito, secondo questa analisi, come il primo sterminio comandato da Dio. Nel Libro dei Numeri, viene ordinata una spedizione punitiva contro i Madianiti, colpevoli di aver corrotto Israele con l’idolatria: «Ora uccidete ogni maschio tra i fanciulli e uccidete ogni donna che ha conosciuto uomo… ma tutte le fanciulle… conservatele in vita per voi» (Numeri 31:17-18). Questo evento precede la presa di Canaan e stabilisce un terribile precedente. Una volta che Giosuè, successore di Mosè, guida il popolo nella Terra Promessa, la conquista di Gerico rappresenta il secondo grande atto di sterminio. L’evento, descritto nel Libro di Giosuè, non fu una semplice battaglia, ma l’esecuzione del comando divino noto come “herem” (voto di sterminio): «Essi votarono allo sterminio tutto quello che era nella città, passando a fil di spada uomini e donne, bambini e vecchi, buoi, pecore e asini» (Giosuè 6:21). Mentre il testo biblico fornisce una motivazione teologica a questi stermini, la critica storica e l’archeologia dibattono sulla loro veridicità, interpretandoli spesso come narrazioni teologiche fondanti.

Dall’insediamento all’apogeo della Monarchia
Dopo la conquista sotto Giosuè e la spartizione della terra tra le dodici tribù, Israele attraversa il turbolento Periodo dei Giudici, un’era di anarchia che porta al desiderio di una monarchia stabile. Il primo re, Saul, si rivela una figura tragica, un sovrano scelto ma infine rigettato da Dio. La sua caduta è segnata da un atto di disobbedienza cruciale: dopo aver ricevuto l’ordine divino di eseguire uno sterminio totale (herem) contro il popolo nemico degli Amaleciti, Saul disattende il comando. Invece di distruggere tutto, risparmia il re Agag e il meglio del bestiame, mascherando la sua azione come un sacrificio per Dio. Il profeta Samuele lo rimprovera duramente, pronunciando la sentenza divina: «Poiché hai rigettato la parola del Signore, Egli ti ha rigettato come re» (1 Samuele 15:23). È in questo vuoto di potere spirituale che emerge la figura di Davide. “L’uomo secondo il cuore di Dio”, unifica la nazione, conquista Gerusalemme e riceve da Dio la promessa di una dinastia eterna, l’Alleanza Davidica, seme dell’attesa messianica. Suo figlio Salomone edifica il magnifico Primo Tempio (c. 966 a.C.), simbolo della stabilità dell’alleanza e dimora della gloria divina (Shekhinah). Tuttavia, l’infedeltà dei re successivi porta al giudizio divino. Nel 586 a.C., Nabucodonosor II di Babilonia rase al suolo il Tempio, profanando la dimora di Dio e conducendo il popolo in esilio. Dopo settant’anni, un Secondo Tempio fu ricostruito (c. 516 a.C.), ma era un’eco sbiadita del primo, privo dell’Arca dell’Alleanza. Anche questo santuario cadde, distrutto nel 70 d.C. dalle legioni romane di Tito. Questa duplice distruzione trasformò l’ebraismo in una fede basata sulla preghiera, lo studio della Torah e l’incrollabile speranza messianica legata alla discendenza davidica.

Col passare dei secoli la relazione tra Ebrei e Filistei (dai quali deriva il nome Palestina) fu di conflitto e dominio, mai di pacifica convivenza. Fu il re Davide a sottometterli, ma i due popoli rimasero culturalmente distinti. Il nome “Canaan” cadde in disuso dopo il 1200 a.C. e fu ufficialmente sostituito nel 135 d.C., quando l’imperatore romano Adriano, per punire una rivolta ebraica, rinominò la provincia in “Syria Palestina”. Nei secoli successivi, la regione passò sotto il controllo di grandi imperi: divenne prima un centro della “cristianità bizantina”, poi fu conquistata nel VII secolo dai califfati islamici, iniziando un processo di arabizzazione. Questo dominio fu interrotto nel 1099 dall’arrivo dei Crociati europei, che fondarono il Regno di Gerusalemme. Infine, dopo la riconquista musulmana, la Palestina fu annessa nel 1516 all’Impero Ottomano, sotto il cui controllo rimase per 400 anni, in uno stato di relativa stabilità ma anche di stagnazione economica, fino all’emergere dei nazionalismi nel XIX secolo. Questa complessa stratificazione di popoli, religioni e imperi è il terreno su cui si fonda la storia moderna di questa terra contesa.
L’era dei nazionalismi e la nascita del conflitto moderno
Dopo secoli sotto il dominio di grandi imperi, la fine del XIX e l’inizio del XX secolo segnano una svolta radicale per la Palestina, con l’emergere di due potenti movimenti nazionalisti destinati a scontrarsi. In Europa, in risposta al crescente antisemitismo, nasce il Sionismo, un movimento politico con l’obiettivo di ristabilire una patria ebraica in quella che considerava la sua terra ancestrale.
Contemporaneamente, nel mondo arabo, in reazione al declino dell’Impero Ottomano e all’ingerenza coloniale europea, si sviluppa un forte nazionalismo arabo, che vede la Palestina come parte integrante di una futura nazione araba indipendente.
L’arrivo dei primi coloni ebrei sionisti alimenta le tensioni, ma il punto di non ritorno viene raggiunto durante la Prima Guerra Mondiale. Nel 1917, la Gran Bretagna, con la Dichiarazione Balfour, esprime il proprio favore alla creazione di un “focolare nazionale per il popolo ebraico” in Palestina, pur nel rispetto dei diritti delle comunità non ebraiche esistenti.
Con la fine della guerra e il crollo dell’Impero Ottomano, nel 1922 la Società delle Nazioni affida al Regno Unito il Mandato sulla Palestina. La politica britannica, percepita come filo-sionista, esaspera la popolazione araba, portando a crescenti violenze. La tensione culmina tra il 1936 e il 1939 in una grande insurrezione araba contro il dominio britannico e l’immigrazione ebraica, repressa duramente.

La spartizione, la nascita di Israele e la Nakba
Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la Gran Bretagna, incapace di gestire il conflitto, rimette il suo mandato alle Nazioni Unite. Nel 1947, l’ONU approva un piano di spartizione che propone la divisione della Palestina in due Stati: uno arabo e uno ebraico, con Gerusalemme sotto controllo internazionale.
Il piano viene accettato dalla leadership ebraica ma rigettato dai leader arabi. Il 14 maggio 1948, allo scadere del mandato britannico, David Ben-Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele. Il giorno successivo, gli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Iraq invadono il nuovo stato, dando inizio alla prima guerra arabo-israeliana. Israele esce vittorioso dal conflitto, espandendo i propri confini oltre quelli previsti dal piano dell’ONU. Per il popolo palestinese, questo evento è conosciuto come la Nakba, la “catastrofe”. Durante la guerra, circa 750.000 arabi palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case nei territori che divennero Israele. Questi profughi si riversarono principalmente in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, ingrossando le popolazioni già presenti e creando una crisi umanitaria e politica che perdura ancora oggi.
Nel 1964, per dare una struttura politica a questa diaspora e alla lotta per l’autodeterminazione, nasce l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), con l’obiettivo di creare uno Stato Palestinese, inizialmente anche attraverso la lotta armata. Negli anni successivi, altre organizzazioni, come Hamas, si sarebbero formate con obiettivi simili o più radicali, scrivendo i capitoli successivi di questo complesso e doloroso conflitto.
Hamas (acronimo arabo per “Movimento di Resistenza Islamica”) è un’organizzazione politica e paramilitare islamista palestinese. Fondata nel 1987 come braccio operativo dei Fratelli Musulmani, persegue l’obiettivo di creare uno Stato islamico in quella che considera la Palestina storica, che comprende l’attuale Israele. Dal 2007 governa di fatto la Striscia di Gaza. Hamas è designata come organizzazione terroristica da numerosi paesi e organizzazioni internazionali, tra cui Stati Uniti, Unione Europea, Regno Unito, Canada e Israele. Altri stati, come Turchia, Russia e Norvegia, non la classificano come tale.
Le accuse di terrorismo e crimini di guerra contro Hamas si fondano su decenni di violenza. Le sue tattiche storiche includono attentati suicidi contro civili israeliani, specialmente durante la Seconda Intifada, e il lancio sistematico e indiscriminato di razzi dalla Striscia di Gaza verso le città israeliane. Queste azioni sono culminate nell’attacco del 7 ottobre 2023, un massacro senza precedenti di oltre 1.200 civili e la presa di centinaia di ostaggi, considerato l’evento più letale nella storia di Israele. Oltre alla violenza rivolta verso l’esterno, organizzazioni per i diritti umani accusano Hamas di gravi violazioni interne a Gaza, come torture ed esecuzioni sommarie di oppositori politici. È inoltre accusata da Israele e da diverse fonti internazionali di utilizzare la popolazione civile come “scudi umani”, collocando le proprie infrastrutture militari in aree densamente popolate come scuole e ospedali.

Conclusioni
Il percorso tracciato in questo articolo, dalle origini bibliche fino alle complesse dinamiche moderne, illumina la profondità delle radici su cui poggia il conflitto israelo-palestinese. La narrazione biblica, con le sue promesse e i suoi mandati, non è semplicemente un resoconto di eventi passati; è un testo fondativo che ha plasmato in modo indelebile l’identità e le aspirazioni di popoli per millenni. Questa sacralizzazione del territorio lo ha elevato al di sopra di una mera contesa geopolitica, trasformandolo in un’eredità per la quale il compromesso è spiritualmente arduo.
Alla luce di questa narrazione, si può interpretare che le azioni dello Stato di Israele moderno altro non siano che il tentativo di completare un disegno storico e teologico rimasto incompiuto: il disegno Davidico e la piena realizzazione della promessa fatta da Dio ad Abramo. La conquista dell’intera Terra Promessa, così come delineata nei testi sacri, diventa in questa prospettiva non solo un obiettivo politico, ma il compimento finale di un mandato divino. Questa chiave di lettura è supportata dalla ferma opposizione di Israele al riconoscimento di uno Stato palestinese. Se nascesse uno Stato di Palestina sovrano, infatti, quel territorio non potrebbe mai più essere reclamato, e il progetto Davidico non si completerebbe mai.
Emerge qui una tragica e dolorosa ironia della storia. Mentre il mondo intero riconosce, giustamente, l’orrore incancellabile dell’Olocausto subito dal popolo ebraico per mano dei nazifascisti, è imperativo che lo Stato di Israele riconosca a sua volta lo sterminio che oggi sta infliggendo al popolo palestinese.
È aberrante vedere donne, uomini e soprattutto bambini innocenti assassinati. L’argomentazione secondo cui la violenza contro i bambini sia giustificata dal timore che da grandi possano diventare terroristi è una forma di colpa collettiva inaccettabile. È un ragionamento disumano, paragonabile a sostenere che tutti i siciliani siano mafiosi quando non è così.
A questa tragedia si aggiunge un’intolleranza verso ogni forma di critica. Qualsiasi tentativo di condannare le azioni dello Stato di Israele viene spesso immediatamente etichettato come antisemitismo, soffocando il dibattito e creando un’inaccettabile asimmetria: da un lato si rivendica il diritto di compiere azioni militari devastanti, dall’altro si nega alla comunità internazionale il diritto di criticarle senza essere accusata di pregiudizio.
Indipendentemente dalla veridicità o dalla giustezza di queste antiche storie, esse hanno acquisito una forza propria, alimentando sogni e rivendicazioni che hanno conseguenze reali e devastanti. Al di là delle narrazioni storiche e delle rivendicazioni teologiche, rimane la tragedia umana. Forse, il primo passo non è stabilire chi avesse ragione millenni fa, ma capire perché quelle storie contino ancora così tanto, sperando che da questa consapevolezza possa finalmente nascere la pace, magari con la creazione di uno Stato Palestinese accanto a quello di Israele. Perché, in definitiva, la tirannia, l’ignoranza e il fanatismo sono i veri nemici dell’umanità.
Se dovessimo ragionare come ragionano altri, allora, ridateci il nostro Impero Romano…

Cav. Natalino Ventrella
Analista Geoeconomico